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Intervista a Giovanna Brambilla, esperta in educazione al patrimonio culturale, progettazione territoriale e welfare culturale

L’arte di comunicare l’arte, nell’era digitale

Parte 3

Può farci un esempio di un museo o di una destinazione che ha lavorato bene sull’accessibilità e che rappresenta un modello virtuoso?

Un esempio è il Museo Omero di Ancona, che ha fatto dell’accessibilità e della formazione in merito all’accessibilità per tutti un punto di eccellenza, così come sono d’alta qualità molte progettazioni di Palazzo Strozzi, apripista nel lavoro con le persone con Alzheimer, ma non solo.


Un museo esemplare è anche il MAXXI di Roma, che ha costituito tre comitati di indirizzo, con tre gruppi di lavoro corrispondenti, impegnati sul tema dell’accessibilità. I comitati sono legati a sordità, disabilità visiva e disabilità cognitiva, e vedono protagoniste persone appartenenti ai contesti di deficit sensoriale o disabilità che entrano a fare parte della valutazione e della progettazione delle attività del museo. Sottolineo che si tratta di persone la cui competenza comprovata è retribuita regolarmente, scavalcando l’idea che chiedere aiuto a persone che appartengono al mondo dei sordi, dei non vedenti, delle neurodivergenze o altro sia per loro un onore a cui rispondere con gioia senza chiedere alcun compenso, lieti del coinvolgimento.

Quali sono gli errori più comuni nella comunicazione culturale che rischiano di escludere alcuni pubblici anziché coinvolgerli?

Storica dell’arte di formazione, Giovanna Brambilla ha intrecciato nel tempo competenze in educazione al patrimonio, progettazione culturale e innovazione sociale.
Da anni lavora per rendere i luoghi della cultura più aperti, accessibili e capaci di generare valore per le comunità. È socia ICOM – International Council of Museums e parte della Knowledge Community del Cultural Welfare Center di Torino. La sua visione integra saperi, territori e persone, con uno sguardo sempre attento al ruolo pubblico dell’arte e alla sua capacità di costruire cittadinanza.

Ecco a voi la terza parte dell’intervista a Giovanna Brambilla.

Forse uno degli errori più grandi è l’autorreferenzialità. Non coinvolgere chi è altro da noi in una riflessione su come muoverci, o pensare che l’importanza di ogni istituzione culturale sia a priori attrattiva e non, magari, lontana o respingente. Serve non ignorare l’analfabetismo culturale e la difficoltà di tenere l’attenzione sulla lettura. La scelta di un pensiero induttivo, più bottom up, può aiutare. Immagini ermetiche o respingenti non aiuteranno, scelte più ammiccanti, dove chi guarda l’associazione tra testo – poco – e immagine – grande – riuscirà a capire la proposta, avranno fatto centro. Molte persone sentono una profonda inadeguatezza nei confronti delle proposte culturali, e restare indifferenti a questo disagio o trascurarlo è un grave errore, perché la mancanza di preparazione non significa carenza di curiosità, ma serve sempre una scintilla per attivare quel relè, e la comunicazione la può innescare. Tanto quanto è vero che i canali social sono importanti, è anche certo che in contesti piccoli è meglio partire “alla vecchia”, con il cartaceo, con una comunicazione fatta di persona, capillare e diretta.

 

Molto interessante, su questo fronte, è l’iniziativa “Le Vie del Sacro” organizzata dal 2023 dalla Diocesi di Bergamo, e attiva tuttora, che coinvolge giovani tra i 19 e i 30 anni, prima formati e poi messi in gioco, nella mediazione del patrimonio culturale della diocesi stessa. Questo ha voluto dire compiere lo straordinario azzardo di affidarsi a voci fresche e giovani, in grado di uscire dalle secche di proposte immutate nel tempo vivacizzandole con contaminazioni interdisciplinari, attivando una rete di comunicazione che tocca tutti i quartieri attraverso le parrocchie, e attira anche il turismo.

 

Esiste poi un altro aspetto, divergente, legato alla comunicazione culturale, potremmo definirlo di “metacomunicazione”, ovvero di analisi, disseminazione e promozione di ciò che avviene nel campo del “fare cultura”. Sono molte, e decisamente meritevoli, le piattaforme gestite da società o associazioni di progettazione culturale che operano in tal senso. Una di queste è “Che Fare”, nel cui sito non si trovano solo insight sui progetti che il team porta avanti, ma anche incursioni in altri campi, con documentazioni e risultati di ricerche da condividere, e persino una rivista che affronta, di volta, in volta, un tema di attraversamento culturale decisivo.

Quali strategie si possono adottare per rendere il patrimonio culturale più accessibile non solo fisicamente, ma anche cognitivamente ed emotivamente?

La prima strategia è quella di uscire dalla torre d’avorio dell’abilismo e interfacciarsi con tutti questi limiti. Prendere in considerazione l’accessibilità per tutti come volano di pensiero e progettazione implica un cambio di paradigma importante. È ovvio che non si risolve tutto, subito, per tutti, ma si può stabilire una road map, ed esplicitarla in una dichiarazione di indirizzi, come un’assunzione di responsabilità verso la collettività. Poi si può attivare una collaborazione con chi segue la progettazione secondo il “Design for all”, o “Universal design”, un approccio che lavora per creare ambienti, prodotti, comunicazioni e servizi che possano essere utilizzabili dal maggior numero possibile di persone, indipendentemente dalla loro età, abilità o condizione. Alla base stanno sette principi fondamentali: uso equo, flessibilità d’uso, uso semplice e intuitivo, informazione percepibile, tolleranza all’errore, minimo sforzo fisico, misure e spazi per l’approccio e l’uso. Questo significa riuscire ad anticipare e tener presenti le diverse esigenze già dalla fase di progettazione.

 

Poi è utile porsi degli obiettivi: chi può accedere a questo luogo, a questo museo, a questa proposta culturale? Chi non può accedere? E questo va fatto pensando agli strumenti che metto a disposizione. Ognuno dovrebbe essere messo nella condizione di avvicinarsi a luoghi e opere in autonomia, ponendo come obiettivo principale quello di evitare la frustrazione. Se la fruizione culturale è fondamentale, perché stimola domande, invita a pensare la complessità, è fonte di benessere, essa va incoraggiata e resa possibile. Quindi apparati vari, uso dei social, ma anche un’intensa attività “outreach”, ovvero che esca dalle sedi istituzionali per entrare in dialogo con i territori e la collettività, senza la logica della “crocerossina”, senza l’impeto del colonizzatore o del missionario che porta l’autorità e la verità, ma con l’umiltà e l’entusiasmo di chi sa quanto è importante la condivisione culturale. Anche progetti partecipativi che coinvolgano le persone nella rilettura di un luogo, della sua storia, della sua cultura, sono importanti perché creano o rinforzano legami tra patrimonio culturale e paesaggistico e collettività: queste operazioni, generative, dal forte impatto sui territori, ribaltano infatti una gerarchia in cui chi sa di arte viene messo nella posizione di progettare “per” qualcun altro, in quanto esperto indiscutibile, a favore di un rapporto paritario fatto di ascolto reciproco, con maggiori garanzie di successo e contaminazione. “Niente per noi senza di noi”: questo è il pensiero degli interlocutori del mondo della cultura, ed è un’ottima richiesta.

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To be continued…

La prime due parti dell’intervista è già disponibile. Non perdertele!

La seconda parte dell’intervista è ora disponibile! Non perdertela.

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